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Giallo Materano
"Le voci della Pietra"






  • 4° -Passarono l’intera mattinata a osservare metro per metro le unità acquisite. L’architetto si congratulò con se stesso per aver concepito un embrione di progetto per nulla invasivo, che avrebbe coniugato modernità e comodità col rispetto assoluto di come si presentavano i sassi alla vista, anche in maniera più rigorosa di quanto prevedessero i vincoli paesaggistici. L’albergo sarebbe stato bellissimo, anche se per forza di cose il personale avrebbe dovuto sottoporsi a percorsi un po’ meno intuitivi e semplici di quanto fosse in genere per una struttura di lusso; ma a qualcosa bisognava pur rinunciare. Quando il sole ormai stava per tramontare in un trionfo di rosso, arancione e azzurro, il geometra condusse l’architetto in cima a una stretta rampa di gradini alla fine dei quali c’era una pesante porta in legno, chiusa. Soddisfatto, l’ometto si voltò sorridendo e disse: eccoci qua, archite’. Questa è l’unità appena acquisita, quella che diventerà la suite. Guardate che vista, tiene. Effettivamente agli occhi dell’architetto, che si voltò a guardare, si presentò un panorama che lasciava senza fiato. I tetti, le mura, sembravano un unico dorso di un immenso animale addormentato e si distendevano verso l’orizzonte. Il sole bassissimo inondava di fuoco lo spazio, creando l’impressione di un territorio limite tra l’inferno e il paradiso. Si voltò sorridendo e chiese al geometra se arrivare proprio là a quell’ora fosse una recita programmata. L’ometto annuì, serio: la verità? Sì, archite’. Perché certe cose se non le si guarda nella giusta luce, diciamo, non si capiscono. Non credete? Fu in quel momento che all’architetto arrivò, chiaro, il mormorio che fino ad allora era sembrato indistinto. Fu talmente forte che si girò a guardare la !11 porta chiusa, come rispondendo a un richiamo. Chiese: ma c’è qualcuno? C’è ancora qualcuno, qui? Il geometra lo fissò perplesso: no, archite’, nessuno. Ci stava solo quell’uomo, ve l’ho detto, ma è morto e lo hanno pure seppellito, ormai sono mesi, non ci sta proprio più nessuno, né qua né nelle altre unità che la società ha comprato. Ma che è, non vi sentite bene? L’architetto scosse il capo. Non sentiva più alcun rumore, ma vide un gatto uscire dalla sommità della rampa, stiracchiarsi e saltare giù da un muro, sparendo. No, disse; ho un po’ di mal di testa, e quel gatto… Mi sembrava di aver sentito qualcosa. Comunque sì, una vista decisamente magica. Se dev’esserci una suite, non può essere che questa. Però all’interno la vediamo domattina, adesso non c’è abbastanza luce. E un’altra cosa, geometra: vorrei la storia di questo posto. Sapere di quest’uomo, della sua vita. Ci riesce, a informarsi? Non avevo il coraggio. Non l’avevo mai avuto, in realtà. Mi accorgevo di quello che stavi facendo a nostra figlia, di quanto la stessi rinchiudendo in una gabbia senza finestre, di quanto sarebbe stata incapace di affrontare il mondo se non l’avesse mai conosciuto; ma non eri mai stato così fermo e deciso e io che non ti avevo contraddetto nemmeno sulle sciocchezze, non avevo la forza di contrappormi. Cercavo di parlare con lei, almeno quando tu non c’eri; e avevamo sviluppato un linguaggio nel silenzio, fatto di cenni, di sguardi alle tue spalle. A lei cercavo di giustificare il tuo pensiero. Le dicevo che eri stato male e che noi avevamo il dovere di aiutarti, lasciandoti tranquillo, dandoti un po’ di serenità almeno tra queste mura. Tra queste mura. Che Dio mi perdoni. !12 Papà? Mi ascolti, papà? Ricordi quando mi portasti lui, qui a casa? Ero grande, ormai. A scuola non ci dovevo più andare, e non c’erano più feste di compleanno alle quali ero invitata ma dovevo rifiutare, con qualche assurda scusa. Avevi deciso che ormai ero una donna. Che avevo bisogno di un marito, per fare un figlio, per darti un nipote. All’improvviso avevi l’ossessione del tempo, la necessità di guadagnarti attraverso me un pezzo di sopravvivenza dopo la morte. E mi portasti lui. Aveva lavorato con te. Robusto, alto: ti aveva aiutato quando ancora riuscivi anche se con difficoltà a inerpicarti. Mi faceva paura, da principio. Poi mi accorsi che anche nei suoi occhi vibrava il terrore che conoscevo così bene, la sottoposizione vuota di volontà che vedevo ogni giorno negli occhi di mia madre. Andai con lui. Una pantomima di matrimonio tra sconosciuti, qualche interdetto parente. L’unica fotografia, sulla credenza, fissa i nostri occhi senza espressione: io, tu, lui. Solo la mamma sembra disperata. Incredibile quanto ci somigliamo, vero, papà? Quanto ci somigliamo, senza assomigliarci affatto. Durò poco. Cambiasti idea, quasi subito. Non potevi controllarci a sufficienza, in un’altra casa; anche se lui come te non diceva una parola, anche se il suo sguardo terrorizzato non mi sfiorava nemmeno, anche se la mia vita non era cambiata in niente col matrimonio. Mi riportò a casa, una mattina. E poi riportò anche le mie cose. Senza una parola, senza una spiegazione. Ma non ce n’era bisogno, no, papà? Nel tuo !13 sguardo gelido, nel tuo cenno d’assenso c’erano tutte le spiegazioni necessarie. Tutto quello che c’era da sapere.

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