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Giallo Materano
"Le voci della Pietra"






  • 3° -Arrivarono al complesso che avrebbe dovuto diventare l’albergo diffuso che l’architetto aveva concepito. Il primo sopralluogo normalmente andava fatto prima di immaginare il progetto, ma stavolta i tempi erano stati molto stretti e l’architetto doveva portare a termine un altro lavoro molto complesso che aveva in corso; coi committenti, un gruppo di immobiliaristi e tour operators del nord, era stato chiaro: non potrò andare fin là se non finisco quello che sto facendo. Per cui aveva partecipato a due incontri nei quali gli erano state sottoposte piantine, rilievi e fotografie, nonché una ricostruzione filmata in 3D di quella che era la situazione allo stato e di quello che si immaginava potesse essere l’albergo a lavori finiti. Lui aveva fatto rilevare alcune problematiche e aveva proposto soluzioni; i committenti si erano guardati e avevano deciso che lo avrebbero atteso. Meglio un lavoro fatto bene, con una firma importante come la sua, che sei mesi guadagnati. Ora che era lì, si rendeva conto una volta di più di quanto fosse inutile osservare i luoghi su carte millimetrate e schermi digitali. La luce. La luce è tutto, e la luce è una cosa viva, mobile, cangiante. Le forme nascono dalla luce e con la luce devono essere compatibili, altrimenti anche la più bella delle idee diventa smorta, inutile. Il popolo che aveva costruito quelle case in qualche modo lo sapeva. Magari senza conoscere lettura o scrittura, senza sapere niente delle quote e delle mappature, aveva trovato il modo di entrare in perfetta sintonia con la luce. Il fianco della montagna che ospitava la città antica sembrava nato così dalle viscere della terra, offrendo quella superficie brulla e bucherellata al cielo e alle nuvole che si inseguivano. Probabilmente i materiali, pensò l’architetto. Forse il fatto di non disporre di mezzi per andare a prendere marmi o vetro; il non sapere cosa fossero la plastica e il cemento armato. Chissà per arrivare a tutto questo quanti crolli di volte, !8 quante mura perimetrali cadute all’improvviso. Sta di fatto che il risultato è perfetto, in termini di compatibilità. Se non fosse stato per quel mormorio. O forse, proprio per quello. Si rivolse al geometra, chiedendogli quali fossero i confini degli immobili di proprietà dei committenti. Il geometra si asciugò il sudore sulla fronte scura con un gran fazzoletto. Archite’, sono dieci case, tutte collegate tra loro. L’ultima, quella del pastore che vi dicevo prima, da qua non si vede, si deve salire per quella scala, è un po’ discosta dalle altre, l’unica non confinante; ma è pure l’unica che vede tutta la valle. L’idea, da quello che ho capito, è di farci una suite a prezzo maggiorato. Vediamo prima qua, poi vi ci porto. Sai, fui addirittura contenta quando smettesti di salire al pascolo, limitandoti ad accudire i nostri animali. Adesso sembra assurdo dirlo, ma ne fui contenta. Certo, lo avevi fatto solo per quella maledetta caduta da cui non ti eri mai veramente ripreso, non lo avresti desiderato, e perciò si acuirono il tuo nervosismo e i tuoi silenzi; ma così eri sempre a casa, e potevi finalmente dormire di più. Saremmo stati più tempo insieme, avrei potuto lenire con dolcezza i tuoi tormenti che non capivo, che non mi lasciavi conoscere. Invece. Invece. Ma non potevo saperlo, allora. Volevo un figlio, lo volevo con tutte le mie forze. Pensavo di volerlo per me, perché mi sentivo madre da sempre, lo avevo nel sangue e nelle viscere di essere chiamata mamma. Ma senza saperlo lo volevo per noi due. Immaginavo che attorno a una culla saremmo diventati qualcos’altro, due genitori, una famiglia. Che il velo che si ispessiva ogni giorno tra te e me sarebbe caduto, che avrei visto il tuo sorriso. !9 Qualche volta all’inizio mi parlavi del tuo lavoro. Mi descrivevi la bellezza della natura, il verde dei pascoli, il silenzio assoluto, le lunghe camminate senza fretta e senza meta. E mi dicevi del peso della solitudine, delle difficoltà economiche, dell’incertezza del futuro e anche del presente. Quando nacque nostra figlia fui felice. Ricordo che tenendola tra le braccia mi voltai verso di te, per leggere nei tuoi occhi almeno una volta la felicità, l’orgoglio e un po’ di fiducia. Guardavi altrove. La fronte corrugata, gli angoli della bocca lontanissimi da qualsiasi sorriso. Il buio cominciava a inghiottire la tua anima. Papà? Almeno adesso puoi ascoltarmi, papà? Chissà se mi stai sentendo. Non lo so. Non l’ho mai saputo, quanto mi ascoltassi, le rare volte che trovavo il coraggio di parlarti. Crescevo, diventavo donna attorno a te e tu non mi vedevi. Avevo imparato alla fine quanto mi convenisse che tu non mi vedevi. Niente sguardo addosso, e niente dolore sulla schiena. Col tempo ci si abitua a tutto, sai, papà? Ci si abitua. Io per esempio mi ero abituata a non avere una vita. Avevi detto alla mamma che non ti piaceva che io stessi fuori di casa se non per la scuola. Che il mondo era un posto terribile. Che l’unica certezza, l’unica sicurezza era nelle mura di casa. Dicesti proprio così: nelle mura di casa. A ripensarci è proprio divertente, vero, papà?

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