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Twitter Factor

Recensione - Le novità editoriali

Ci chiediamo cosa sia attuale in un’epoca ricattata dall’attualità. Nelle ore in cui il favorito Bob Dylan non si aggiudica il Nobel per la letteratura, che viene invece assegnato allo svedese Tomas Tranströmer (sul quale toccherà documentarsi...), riflettiamo che così come la concepiamo oggi, l’attualità l’ha creata Steve Jobs. Del quale in questi giorni, dopo l’annuncio della sua scomparsa al termine di una lunga lotta contro il cancro, rammentiamo la capacità di introdurre l’arte e il desing nell’era dell’informatica e del computer; di cambiare il business musicale e di reinventare il mondo dell’informazione e dell’editoria; infine di combinare l’estetica, la tecnologia e il marketing trasformandoli insieme in uno status symbol. E’ probabile il clima della California, attraverso la sua controcultura e il suo spirito irriverente e informale, abbia influenzato il lavoro di Jobs, come del resto la nascita di Google. Nella sua parabola il fondatore della Apple ha insegnato a prendere di petto la cultura. Pensare qualcosa che si fondi sull’autonomia e sulla sperimentalità, capace di mettere in moto innumerevoli sorgenti di idee, piuttosto che l’ingannevole torrente del consenso. 

Intanto nel costume cedono i dizionari. In quello Zanichelli entrano ben 1500 nuove voci tra cui: velinismo, celodurismo, fighettismo, diplomatichese, didattichese, giovanilese, milleproroghe, biotestamento, Sadrista (movimento legato al fondamentalismo islamico e diffuso in Iraq), Cuissardes (stivali con gambale a mezza coscia), Cardiofitness, Fit Box, Bosu (attrezzo ginnico), eternizzare, frappucino, ecoauto, ecocontributo, compostiera (per i rifiuti solidi urbani), ecopiazzola, monogenitoriale, minisindaco. Basta. Anche se poi ci si mette Stefano Bartezzaghi con “Come dire”, per Mondadori, dove esplora i passaggi attraverso i quali il linguaggio racconta il paese: dalle mode agli slogan agli strafalcioni, e ancora ragionando sulle deliranti parole del calcio fino a quelle pretenziosissime dei menù. Più intrigante ancora la riproposta di “Ricordi sott’odio”, per Rizzoli, dove Indro Montanelli si fece gioco dei suoi contemporanei in un’antologia di epitaffi, che suonano più come sberleffi, tra cui spicca: Qui / per la prima volta / Alida Valli / giace / sola. 

Allora la Rete. Benedetto Vecchi sul Manifesto del 5 ottobre segnala “Twitter Factor” di Augusto Valeriani, per Laterza. Dove viene indagato il rapporto, sempre più stretto, tra il potere e il Web. Sia il giornalista che l’autore, che individua una felice sintesi del fenomeno, sottolinenano l’importanza di mantenere un rapporto equilibrato con il mezzo – una volta lo si diceva della Tv – né fuggendolo né aderendo a tutte le sue istanze, soprattutto quelle politiche. Intanto sul Corriere del 1 ottobre viene reso pubblico l’accordo tra Apple e editori italiani, accordo che arricchisce il negozio digitale del marchio con l’acquisizione dei cataloghi Mondadori, Rcs, Giunti e Dalai. Qualche giorno prima sempre il Corriere il 29 settembre aveva annunciato che Jeff Bezos, fondatore di Amazon, ha presentato Kindle Fire, il primo tablet low cost. Una rivoluzione nel settore, perché ha due vantaggi sulla concorrenza: i costi (199 dollari, cioé 146 Euro, contro i 499 dell’iPad) e l’accesso a 17 milioni di contenuti (pensiamo non si farà in tempo ad utilizzarli tutti). Come se non bastasse segue, nel pezzo di Massimo Sideri, una sequenza di numeri e dati che fa somigliare l’articolo ad una reclame (display a colori da 18 centimetri, software Android, connessione ad Internet tramite wifi, schermo a colori di 7 pollici con risoluzione di 169 pixel per pollice e 16 milioni di colori, batteria assicurata fino a 8 ore di autonomia in lettura continua, oppure fino a 7,5 ore in riproduzione video) al termine della quale, non ci giureremmo, ci pare di intravedere la Madonna di Tindari, dove ricordiamo essere stati battezzati in un tempo in cui il gesto più futuro era mandare un telex a Lugano. Tuttavia l’ironia sfuma leggendo il fondo di Maria Teresa Carbone, sul Manifesto del 10 ottobre; che riprende un articolo uscito giorni fa in Usa su The Mornig Call, rivolto al lato oscuro di Amazon e all’interno del quale Elmer Goris, un magazziniere che recentemente ha deciso di licenziarsi, denuncia senza mezzi termini le dure condizioni di lavoro. Il motto della ditta è «fare di tutto per offrire ai clienti i prezzi più bassi possibili» e l’ex-dipendente spiega come si ottengono questi risultati, svelando il colonialismo ai tempi di Facebook. 

Invece Loredana Lipperini, una giornalista incaricata spesso di indagare il post-moderno, racconta su Repubblica del 29 settembre che su Internet trame e racconti sono sempre più sottoposti al tribunale dei blog; e non si salvano nemmeno i classici, dando consigli perfino a Thomas Mann (che tuttavia, essendo da tempo passato a miglior vita, non è in grado di raccoglierli). Ne leggiamo alcuni, rivolti ad altri immortali: su i “Promessi Sposi” di Manzoni, per esempio, tale Marco scrive la storia non funziona, andavano limitati i giudizi personali a vantaggio della trama; su “La lettera Scarlatta” di Hawthorne, una certa Chiara nota la trama aveva bisogno di più ritmo e scrittura coinvolgente; su “Dorian Gray” di Wilde, il buon Tommaso si rammarica l’autore costruisca un personaggio troppo antipatico, per non parlare della storia che andrebbe arricchitta di più azioni; infine su “Il giorno della civetta” di Sciascia, l’utente Elisa riprende lo scrittore perché inserendo qualche difetto nel personaggio del capitano, egli avrebbe scritto il libro perfetto. I primi tempi in cui circolava l’inglese dalle nostre parti si diceva: no comment. Alla stregua della Lipperini, Carlo Freccero è valutato un interlocutore fondamentale quando si indaga sul moderno e persino oltre. Su Repubblica del 4 ottobre, in margine ad un articolo di Riccardo Luna che comunica la Tv è finita in Rete, che non è esattamente quanto di più bello e nuovo potesse accadere, il Direttore di Rai4 dichiara a Leandro Palestrini che con Internet – che egli vede come un bene comune – non saremo più solo spettatori bensì protagonisti. Si diceva anche trent’anni fa dopo l’avvento del telecomando; ma di fatto aumentò la pubblicità e non accadde molto altro, a parte l’impazienza dei telespettatori. Sul Web intanto si scatena la polemica intorno a Vasco Rossi. Un sito satirico, Nonciclopedia, lo mette in mezzo; lui li denuncia per diffamazione; il sito chiude; oltre 150.000 utenti su Facebook reagiscono per salvare il sito denunciato; conclude Francesco Facchinetti che, riferendosi a Vasco, dichiara al Corriere del 4 ottobre: che errore non aver capito la Rete. 

Più curiosa, sebbene in linea con i tempi, la vicenda riportata da Marco Del Corona su La Stampa del 29 settembre; dove si racconta di Ruo Xiaoan, una prostituta che aveva eccitato 160.000 fan on line, prima di essere pizzicato dalla polizia e dichiarare di essere un 31enne sposato con figlio. Pare Ruo Xiaoan in cinese voglia dire «piccola pace», mentre non è dato sapere come si dica «imbecilli» in cinese. La vicenda avrebbe fatto ridere Longanesi – l’inventore del tengo famiglia; e fa tornare alla mente uno straziante film di Cronenberg, ”M Butterfly”, basato su una storia vera che accadde, nel contesto della diplomazia, nella Cina degli anni Sessanta e anch’essa legata all’identità sessuale (ma si tratta di un tema ricorrente, come dimostra il recente “Tomboy” della regista Céline Sciamma, appena approdato nelle nostre sale). Più interessante nella sua amarezza il fondo di Benedetto Vecchi che sul Manifesto del 29 settembre analizza come i lavoratori della conoscenza (un quinto stato invisibile che lavora nell’università, nella ricerca, nell’editoria, nell’industria dello spettacolo) abbiano deciso di uscire allo scoperto in un’assemblea al Teatro Valle di Roma, quello occupato, dove hanno affrontato la loro rappresentazione sociale, messa a dura prova dalla crisi economica. Sulla questione ha detto la sua Renato Nicolini, l’indomani e sempre sul Manifesto, denunciando come la cultura non sia avvertita come una priorità da parte delle istituzioni. Incontrato per strada pochi giorni fa, desideriamo ricordare che Nicolini, nelle vesti di Assessore alla Cultura del Comune di Roma, fu l’inventore sul finire degli anni Settanta dell’Estate Romana, pensata per quelli che in vacanza fuori città non potevano andarci (più che altro perché non potevano permetterselo). Tra le iniziative la più popolare rimase Massenzio, con quella meravigliosa idea di portare il cinema accanto al Colosseo, dove collaborammo a lungo col leggendario gestore Angelo Vittorioso. Ricordiamo nel suo ufficio una foto di Sentimenti IV, famoso portiere della Lazio poco prima l’unità d’Italia, che commuoveva il Nostro ogni volta vi posava gli occhi; e un biricchino calendario dedicato al pube femminile. Quando gli dicemmo non avevamo mai visto niente di simile, ci guardò senza educatamente chiedere se ci riferissimo o meno al calendario. Invece sul Foglio del 29 settembre Antonio Gurrado li sfotte un pò, ma almeno fornisce una ribalta al TQ; il movimento degli scrittori di rigore giovani del quale i quotidiani, complice la riapertura degli uffici stampa, hanno smesso di occuparsi. 

Ma è il passato ad occupare le prime pagine: nell’iniziativa di riportare alla luce il progetto di un film incompiuto di Luis Buñuel, concepito alla fine degli anni Settanta sul terrorismo e l’avvento di nuova era, così come raccontato da Mario Serenellini su Repubblica del 25 settembre; nel documentario su George Harrison, il chitarrista dei Beatles, che Martin Scorsese ha presentato questa settimana al Festival di New York (confermando una nuova tendenza artistica, ribadita dai contemporanei film di Jonathan Demme su Neil Young e di Cameron Crowe sui Pearl Jam); nella sindrome da remake tipica della cinematografia odierna ed ora approdata – stando ad un pertinente articolo di Luca Celada sul Manifesto del 4 ottobre – ai rifacimenti di “Intrigo Internazionale” di Alfred Hitchcock e di “Cane di Paglia” di Sam Peckinpah, per tacere delle attese riproposte de “Il Grande Gatsby”, con Leonardo Di Caprio, e di “Mad Max” (Celada ci fa ricordare che persino l’attualissimo e acclamatissimo “Drive” è la versione riveduta di “Driver”, film dimeticato del 1978 di Walter Hill con Ryan O’Neal) ; infine il passato ritorna, se mai se n’è andato, nell’idea di riportare nelle edicole Il Male – quello della storica, falsa copertina de La Stampa del 15 aprile 1979; che annunciava l’arresto del capo delle Brigate Rosse, l’attore Ugo Tognazzi, e che fece pronunciare una amara battuta ad Alberto Sordi, che credeva il collega fosse davvero al comando delle Br! – pure se ci si chiede quale sarà il nuovo contributo di Vincino & company in un periodo nel quale quella fiammata polemica si è esaurita e la satira è rientrata nei ranghi. 

Nel mondo letterario tengono banco le anticipazioni, nei giorni scorsi riportate in Italia dal Corriere, sul nuovo romanzo del giapponese Haruki Murakami, e che svelano come la storia di amore e morte raccontata in “1Q84” coinvolga “The Dark Side Of The Moon” dei Pink Floyd. Per Murakami non è un intreccio originale e il gioco di prestigio (letteratura più juke-box) gli è già riuscito. Per i Pink Floyd è un momento d’oro, perché la citazione coincide con la ristampa del loro catalogo: che si siano messi d’accordo? Estetica dei diritti d’autore. Chissà perché ci è tornato in mente Sergio Endrigo, che frequentammo per un periodo tanti anni fa. Tirando tardi la sera raccontava Sergio con i diritti che gli arrivavano per “La casa” disponeva di una buona paghetta. Insisteva su qualla canzone, evidentemente ci era affezionato. Altro che musone, Sergio aveva un bel sorriso e beveva che era un piacere. Una puntata in radio con lui e Gianni Mura resta un bellissimo ricordo negli anni della professione. Pure Claudio Magris, che era delle stesse parti di Endrigo, non gli era da meno. Ma lui lo incrociammo in una taverna a Genova. Si lamentava perché ci portavano il vino in un calice. Nouvelle couisine, provarono a dire quelli. Nouvelle couisine un corno, tuonava, lui voleva la bottiglia! Noi fummo d’accordo, come sempre dalla parte degli ospiti. 

Invece Nello Ajello si imp
egna a descrivere – su Repubblica del 23 settembre, recensendo l’ennesimo libro sulla televisione, che questa volta si intitola “La mutazione individualista” ed è di Giovanni Gozzini per Laterza – i mutamenti del paese, che sono stati paralleli a quelli del piccolo schermo. Gli fa eco, sulla stessa pagina, Gianfranco Marrone, il quale sottolinea come il tempo sociale sia ormai scandito dai telefonini e dal Web. Aggiunge l’inseguimento agli ascolti ha generato programmi uguali mentre in Rete vince la creatività. Non è vero ma dirlo è fico, specie ad una certa età. A noi sembra vecchia persino la Rete, sommersa da stupidaggini di ogni risma, troppo esposta, priva di controllo e dove oramai si fa fatica a distinguere la forma dal contenuto. Su un altro fronte un grido d’allarme è lanciato anche dal Corriere del 24 settembre, dove Emilia Costantini raccoglie le opinioni di diversi protagonisti dello spettacolo italiano (Michele Placido, Liliana Cavani, Giorgio Albertazzi, Alessandro Gassman, Remo Girone) che denunciano la scarsa qualità della fiction televisiva. Storie finte, servono autori, dichiarano. Quante volte l’abbiamo sentita? 

Il giorno prima, sempre sul Corriere, la prima di Cultura apre nel segno di Carlo Emilio Gadda; perché Adelphi ristampa “Accoppiamenti giudiziosi”, nel quale la borghesia milanese viene messa alla berlina. E’ lecito riflettere quale borghesia milanese? Perché la borghesia milanese nel frattempo è cambiata migliaia di volte, come il mondo intero. Privi di polemica, lo stesso ci domandiamo quanti troveranno il tempo di leggere un libro simile. La curiosità di sapere di una cosa che non c’è più. Per esempio ci hanno insegnato che per capire Roma era fondamentale leggere “Gli indifferenti” di Moravia. E’ ancora vero? Il Corriere del 2 ottobre anticipa un brano de “Itinerario estetico”, che Compositori sta per mandare in libreria e che raccoglie alcuni scritti di Gillo Dorfles, più un dialogo tra lui e Aldo Colonetti. Ad un certo punto, valutando il pensiero di Freud e Jung come elemento suggestivo di alcune esperienze artistiche del passato, il critico riconosce come il contributo dei due psicanalisti, la cui ricerca dell’inconscio ha assunto un valore capitale nella nostra civiltà, sia stato messo in discussione e considerato meno importante di prima. Più drastico ancora il critico d’arte francese Jean Clair (di cui Skira manda in libreria “L’inverno della cultura”) che a Benedetta Craveri, su Repubblica del 3 ottobre, dichiara milioni di curiosi circolano nelle sale dei Musei senza più essere in grado di capire quello che vedono. Ma è la televisione! Allora oggi cos’è importante? Cosa vale? Domande come queste ci perseguitano; perché manca il tempo, ridotto a una partita, della riflessione e dell’approfondimento, vietati entrambi a favore della condivisione, la parola feticcio nelle riunioni di lavoro al tempo del Web. Bisogna vedere cosa effettivamente possiamo condividere, a parte le bugie e i debiti. 

Il Foglio del 24 settembre, attraverso Stefano Di Michele, fa il ritratto immaginario dell’intercettatore, figura centrale del dibattito pubblico odierno; arriva a scomodare Dio intercettato da quei due biricchini di Adamo ed Eva nell’Eden, prima che si mettano a pomiciare; poi Casanova a Venezia tra un’avventuretta e un’altra; le intercettazioni dei dissidenti trasmesse alla radio dal regime comunista ceco;  Borges (che sul Foglio, prima o poi, fa capolino); fino a “La conversazione”, solitario e bellissimo film di Francis Ford Coppola su un tale che di professione ruba e rivende le parole degli altri (e al quale dedica un bel saggio Claudio Bisoni, nel libro collettivo “Il cinema americano attraverso i film”, curato da Leonardo Gandini per Carocci). Il Corriere dell’11 agosto scorso, a firma di Dario Fertilio, riflette invece sulle troppe conversioni postume (altra moda); però rimprovera la Chiesa che esagera, a parer suo, ad arruolare tra le sue file fin troppi scrittori – da Malaparte a Pasternak, da Tozzi a Tolkien fino ad Harry Potter! – annettendoli in nome della fede, con il rischio che l’etichetta prevalga sul valore letterario, come ai tempi delle polemiche incrociate di destra e sinistra. Erano gli anni Cinquanta. Su qualcosa di analogo si concentra Il Foglio del 13 agosto, in un articolo di Matteo Marchesini che indaga sulla (im)possibile eredità di Manzoni, Montanell, Pasolini, Sciascia; e valuta come troppi se ne contendano se non la capacità (quella magari no) lo spirito (che è più facile, apparentemente). Torna in mente una battuta di Tony Santagata negli anni Ottanta: disse la world-music l’aveva inventata lui. Chissà, lui era serio. Intanto fa sul serio Ivano Fossati, che annuncia il ritiro dalle scene e per farlo sceglie la televisione, ospite di Fazio, alla vigilia di un disco e di un tour. Meglio i Rem che lo hanno comunicato e basta senza mettere in piedi un fondale da Ultimo valzer. Da fuori è sembrata né più né meno un’operazione mercantile (e Il Foglio del 4 ottobre lo ha fatto notare attraverso due editoriali) una volta pigiato per bene il pedale della nostalgia, il tutto accompagnato nei giorni successivi da una poderosa campagna stampa sui principali quotidiani e sulle tv nazionali. Lui dice l’ha meditata, la decisione del ritiro. Puntuale lo spazio che L’Unità dedica alla buona musica, questa volta nella copia del 28 settembre: ricordando il jazzista Miles Davis a vent’anni dalla morte, con un bel pezzo a firma del bravo Giordano Montecchi. Davis è stato il più importante e longevo musicista di jazz della storia ma i quotidiani nazionali hanno valutato diversamente. Da noi il jazz è soprattutto Stefano Bollani, Enrico Rava e Paolo Fresu. Fresu è gentile, iperattivo; Rava è uno che sta alla finestra, imminente un suo omaggio a Michael Jackson; Bollani è un dritto. Hanno compreso se non c’è l’arte non è la fine del mondo. Rimane lo spettacolo. 

Con Montecchi anni fa partecipammo a una serata a Mantova, apparentemente organizzata per parlare di arte e dittatura in Cile; in realtà per promuovere il disco di un letale cantante della zona, proprietario del cinema locale. Con noi c’era Gianni Minà. Ad un certo punto si sparse la voce sarebbe arrivato Peter Gabriel (carine un paio di sue dichiarazioni raccolte dal Manifesto del 6 ottobre: Vorrei vendere come Lady Gaga / Avere dei figli aiuta a mantenersi aggiornato). Poi facero sapere Gabriel non ce l’avrebbe fatta (mica per altro, era a Londra) e lo sostituirono con una diapositiva. Il pensiero è quello che conta. A noi e a Minà ci assegnarono addirittura una guardia del corpo. Questi in privato ci chiese se poteva raggiungerci a Roma, perché da quelle parti non si batteva un chiodo e in palestra i clienti venivano solo d’estate per perdere chili e fare bella figura in costume, e se ci scappava anche in mutande. Del resto vantava ottime referenze. Ci raccontò di quando in autostrada, approfittando dell’auto con i vetri scuri, lui e Fiorello facevano le linguacce agli automobilisti. Gianni non capiva e neppure noi, così ci fu spiegato quelle erano le referenze. La kermesse durò talmente tanto, con decine di assessori che intervenivano in un delirante scambio culturale tra la Cordigliera delle Ande e l’oltre Pò pavese, che Gianni si accasciò su una sdraio mentre noi in blazer e cavallereschi fino all’idiozia, a furia di reggere il microfono per quelli che parlavano, implorammo una pomata per il braccio indolensito che aveva assunto nuove inaspettate forme. L’assistente di palco ci soccorse con un kleenex. Era previsto il sudore, si giustificò, non il dolore; e citò i Queen, accennando “The show must go on”. Troppo stanchi per insultarlo portammo a termine la serata, immaginando alla fine batterie di culatelli e decine di  bottiglie di Bonarda offerti da qualche consorzio del posto. Un’anziana donna consigliò il Prep e indicò la strada della farmacia comunale, poi riguardo la nostra fitta ci rincuorò dicendo era la botta della vedova: fa male tanto ma dura poco. Si fece tardi e non trovammo nessun ristorante aperto, il culatello divenne un miraggio e con Minà negoziammo un pezzo di Emmenthal e una confezione di Crodino col portiere di notte della pensione che ci ospitava. Quello se li era comprati per sé prima al supermercato, ma divise tutto volentieri perché riconobbe Minà: a volte la televisione. Gli chiese se puta caso conoscesse Frank Sinatra. Gianni educatamente si scusò e rispose di no. Poi guardò noi e rispondemmo sì, ma di nome. Forse a causa della stanchezza oppure del Prep, sta di fatto eravamo così storditi da essere convinti il portiere fosse di Salonicco; invece era di Modena e, pur ammettendo la nostra buona fede, lo stesso ci osservò come se avessimo detto una minchiata, e in fondo aveva ragione. Riprese dicendo la notte era lunga e lui ogni volta affittava un porno. Quella volta aveva scelto una parodia di “Odissea nello spazio”; dove gli astronauti, con annessa scorta di astronaute che non aspettavano altro, non sapendo più come ingannare il tempo mentre l’astronave li conduceva grosso modo dalle parti di Giove e Saturno e compagnia cantando, decidevano di inchiappettarsi, più che altro per noia, fino ad esaurimento scorte. Ne guardammo un pezzetto insieme, pure conoscendo il finale, e ripensammo l’episodio quando, poche settimane dopo, Kubrick si spense. Forse gli era giunta voce. Settimane dopo venimmo a sapere che uno degli organizzatori della manifestazione era scappato con la cassa, poi beccato dalle forze dell’ordine. In effetti con Minà ci eravamo chiesti che fine avesse fatto il grande albergo a sette stelle e mezzo con vista sulle terre dei Gonzaga promesso dagli organizzatori, e sostituito dalla Pensione Ossola a pochi metri dalla Stazione ferroviaria (comoda però, non erano ancora arrivati i trolley). Eppure rammentiamo la gente per strada fermava Minà non per chiedergli autografi o farsi la foto col cellulare, ma per domandare pareri e opinioni: era bello da vedere. Il pubblico e il privato incarnati in un volto conosciuto e garbato che ascoltava le persone, e le persone avevano fiducia in lui perché rappresentava una cosa seria come la tv.  E ci tornò in mente una puntata del “Maurizio Costanzo Show” dove, tra gli altri, era ospite Maurizio Mosca. A noi Mosca sembrava un cretino che diceva cose cretine e faceva cretinate. Il pubblico rumoreggiò dopo una sua battuta e Costanzo reagì; e prese a raccontare di come Mosca accudisse amorevolmente l’anziana madre; e che non era andato via di casa, l’unico tra i suoi fratelli, proprio per non lasciarla sola; e di quante cose facesse per lei, per darle conforto. Così i cretini a quel punto ci sentimmo noi. Ecco, la televisione insegnava a chiedere scusa. E’ difficile crederci.


A cura di Vittorio Castelnuovo 
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